— Nathan

Riforme istituzionali: cambiare sì ma senza regredire

“Tutto quello che avreste voluto sapere sulla controriforma istituzionale e non vi hanno mai detto”. Ecco, questo pezzo si potrebbe chiamare così: si tratta di una sorta di vademecum, 10 ragioni per cui il DDL “Boschi-Verdini” insieme al “porcellinum” costituiscono una “deforma” del nostro paese e un problema per la democrazia. Una raccolta di pareri e commenti iniziata nel 2014 e conclusa nel 2016 con 45mila battute, 45 collegamenti e 22 autori per approfondire il tema e non farsi trovare impreparati al referendum confermativo d’autunno.

Italia-crepata

1. La lunga regressione: verso il premierato assoluto

Se «Non piace il termine “svolta autoritaria”, usiamo questa formula: “lunga regressione”.» Così si esprime il costituzionalista Gaetano Azzariti: «Continuano a sottolineare l’innovazione, la svolta, il presunto cambio di passo. In realtà questa riforma è fortemente conservatrice: tende a dare una forma stabile – a livello costituzionale – alla lunga regressione che ha qualificato l’ultimo ventennio politico, contrassegnato da una forte verticalizzazione del potere.»
Sì perché quello che non funziona di queste riforme è il “combinato disposto” della modifica costituzionale, di quella elettorale e di quella, già approvata, degli enti locali. L’impianto complessivo rafforza il Governo con un quasi-presidenzialismo indebolendo il Parlamento con la quasi-abolizione del Senato insieme al contestuale indebolimento di regioni e province (che sono un attore fondamentale per la coesione delle aree non-metropolitane) oltre a depotenziare i meccanismi di partecipazione dei cittadini (con le liste bloccate, con l’innalzamento del numero delle firme per le leggi d’iniziativa popolare e per i referendum).
Si passa quindi ad una «democrazia dell’investitura in cui il voto serve solo a scegliere il Governo, e questo diviene poi padrone della Camera alla quale può essere imposto di ratificare ogni suo provvedimento: il bilanciamento dei poteri è infranto, gli equilibri costituzionali saltano.» secondo Stefano Rodotà
Già perché il ballottaggio del porcellinum introduce l’elezione surrettizia del premier con voto popolare: si tratterà in pratica del “sindaco d’Italia”, acclamato per 5 anni attraverso un plebiscito mediatico e che potrà contare su una maggioranza solida grazie al premio che ha conquistato da solo. Il sistema sarà quindi bloccato per tutta la legislatura garantendo (forse) governabilità ma mortificando la rappresentanza con una legge elettorale ipermaggioritaria.  con liste bloccate, impianto proporzionale su collegio nazionale, premio spropositato, sbarramenti enormi. Il sistema si irrigidisce quindi notevolmente e in caso di crisi rischia di spezzarsi mentre un pregio del sistema istituzionale attuale è quello di essere flessibile e di piegarsi reagendo alle difficoltà.

L’opposto insomma dell’uninominale a doppio turno o anche del Mattarellum, proposte ufficiali del PD per anni, che tendevano a calare la competizione sui territori, a portare la politica nei collegi, dove le sfide avrebbero potuto far ripartire la politica dal basso, dalle possibilità di collegamento tra il sentire locale e la rappresentanza a livello nazionale.
E invece la minoranza che raccoglie circa un quarto dei voti ottiene la maggioranza assoluta (grazie al premio) e la possibilità di nominare tutte le istituzioni di garanzia: Csm, Corte costituzionale, Presidenza della Repubblica, facendo venire meno quei “pesi e contrappesi” tra poteri, quei “check and balances” fondamentali affinché uno dei poteri non prevalga sull’altro.
«I normali modelli presidenzialistici, dal francese all’americano, sarebbero più equilibrati rispetto al monocameralismo ipermaggioritario che di fatto si viene prospettando. Si vuole realizzare quel “premierato assoluto” paventato da Leopoldo Elia, indebolendo la separazione dei poteri come non accade in nessuna democrazia europea. Diciamo la verità: se Berlusconi avesse tentato di modificare la Costituzione in questa maniera avremmo riempito le piazze. (…)
Si affidano le sorti del paese all’arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.» spiega Walter Tocci.

Il modello “sindaco d’Italia + sindaci sul territorio” con l’umiliazione di diversi corpi intermedi (segretari comunali, camere di commercio, autorità indipendenti ), lo stravolgimento di un modello di democrazia diffusa che ci ha salvato del cesarismo recente e passato non può essere accolto tranquillamente.
«L’obiettivo, ormai decennale, è mutare la nostra forma di stato, la democrazia costituzionale dove, a differenza della democrazia maggioritaria o totalitaria, la maggioranza non è ‘padrona‘ dello Stato, ma soggetta a limiti e regole. Proprio per questo nasce il Costituzionalismo, per porre limiti e regole al potere: in origine era il potere di un Monarca, oggi è il potere della maggioranza uscita dalle elezioni che ha il diritto di governare, ma non in modo assoluto.»  secondo la costituzionalista Lorenza Carlassare.
Insomma, non si eleggono più i senatori, non si eleggono più i deputati, non si eleggono più le province. È il ceto politico che elegge il ceto politico. Come se avessimo bisogno di creare un’altra casta autoreferenziale oltre a quelle che già abbiamo (gli USA sono passati dall’elezione indiretta del Senato a quella diretta proprio perché i senatori erano diventati un’oligarchia soggetta agli interessi dei potentati locali).

Riassume bene Walter Tocci: «Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un’assemblea composta anche da figure amministrative, e dall’altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli – inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. – che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c’è niente di peggio di un’assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l’efficienza del sistema. (…)
È poi un grave errore abbandonare la legislazione concorrente, che è l’essenza di un regionalismo cooperativo, l’unico possibile in un paese segnato da storiche fratture. Si sceglie al contrario una netta separazione tra competenze esclusive dello Stato e delle Regioni che non lascia più alcun margine di mediazione, rendendo quindi irrisolvibile il conflitto di competenze.
Il Senato delle autonomie non sarà in grado di comporre i conflitti, anzi potrebbe esasperarli. Ad esso viene attribuita una fantomatica funzione di raccordo con un’espressione retorica priva di qualsiasi significato giuridico cogente. Nella realtà quell’assemblea sarà a chiamata ad approvare dei testi normativi sui quali si formeranno delle maggioranze e delle minoranze in base ai rapporti di forza tra Regioni ricche e Regioni povere. Venendo a mancare la mediazione politica della rappresentanza territoriale – che pur con i suoi limiti ha contenuto fin qui le pulsioni separatiste – il nuovo Senato accentuerà la frattura tra Nord e Sud, con il rischio di indebolire ulteriormente l’unità nazionale.»
«Contemporaneamente i poteri legislativi del nuovo Senato sono così confusamente (ed insufficientemente) configurati, che ne potrebbero derivare dubbi di legittimità costituzionale su molte leggi statali approvate con l’uno o con l’altro procedimento previsto nel progetto di revisione costituzionale (se ne possono distinguere sette od otto).» secondo Ugo de Siervo.
Oltretutto, come dice Corradino Mineo: «Le Regioni hanno avuto poca autonomia politica e invece hanno speso tanti soldi. Oggi sono forse le istituzioni più colpite dalla crisi politica e morale che attraversa il Paese. È nelle Regioni, nei Consigli e nelle Giunte regionali che i partiti, purtroppo tutti, hanno conosciuto il grado di più grave compromissione con gli affari. Ed invece di riformarli consegniamo loro il Senato e ai partiti affidiamo il compito di nominare i senatori.»

Negli anni ’90 il centrosinistra ha promosso le “leggi Bassanini” eliminando ogni controllo ex ante negli enti locali (segretari comunali e provinciali non più esterni rispetto alle amministrazioni, eliminazione dei CORECO per le regioni) pensando che la sanzione sociale avrebbe consentito di effettuare controlli ex post e dopo 20 anni ci siamo accorti di aver sbagliato clamorosamente. Meglio non metterci altri 20 anni per capire l’errore che siamo facendo adesso.
Il filone è unico insomma e si configura come una democrazia dei pochi. In definitiva in questo paese conteranno meno di 40 persone in tutto (presidente del consiglio, presidenti di regioni e sindaci di città metropolitane): un’oligarchia de facto che tenderà a bloccare la democrazia e lo sviluppo di questo paese negli anni a venire. L’uomo forte in senso verticale si affianca agli ometti forti in senso orizzontale: in pratica si consolida una repubblica feudale con vassallo, valvassini e valvassori.
In definitiva «il pacchetto di riforme Renzi-Boschi comprime e riduce il potere elettorale dei cittadini. Non restituisce affatto lo scettro (della sovranità popolare). Al contrario, lo ammacca, per di più, senza nessun vantaggio per la funzionalità del sistema politico» secondo Gianfranco Pasquino.

«L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte.» Ecco perché il Coordinamento Democrazia Costituzionale chiede di battersi contro questa “deforma” nel referendum:  questa frase è una sorta di riassunto del Manifesto di Gustavo ZagrebelskyPerché votare no”  e delle “insuperabili criticità” illustrate da Alessandro Pace.

2. Non cristallizzare i difetti del paese

Uno degli aspetti più preoccupanti è la costituzionalizzazione di alcuni malvezzi che non hanno certo fatto la fortuna di questo paese.
Si fissa l’idea che siano legittimi i conflitti d’interesse: tra l’attività di sindaco e quella di presidente della provincia che dovrebbe in qualche modo controllare, tra l’attività di consigliere provinciale e quella di consigliere comunale che avrà occhi di riguardo per il proprio comune, tra il potere esecutivo locale e il potere legislativo nazionale, tra il potere legislativo regionale e quello nazionale con la possibilità di elargire favori o costruire leggine ad hoc. Poi sarà complicato regolare incompatibilità in altri campi visto che questi sono fissati in Costituzione.
Si decide che i doppi o tripli lavori siano cosa buona: già è difficile svolgere al meglio un lavoro figuriamoci due o tre. Sarà da capire come potranno fare i sindaci delle grandi città a svolgere il proprio ruolo oltre a quello di presidente della città metropolitana e senatore. Sarà complicato poi dire che non va bene svolgere doppi lavori in altri campi.
Si stabilisce definitivamente che si può lavorare senza percepire un compenso. E questa è la cristallizzazione della generazione “lavoro ma non mi pagano” che dopo questo intervento sarà impossibile smontare (anche se non si vede una grande levata di scudi da parte dei giovani che fanno stage a ripetizione).
Si assicura infine l’immunità ai senatori eletti indirettamente. Non è difficile prevedere il lavorio dei consiglieri regionali per essere eletti senatori in vista di quella protezione: ben 17 consigli regionali su 20 hanno subito inchieste per corruzione o malversazione negli ultimi anni.

3. Applicare la Costituzione antifascista

«La nostra Costituzione rappresenta una rottura non solo con l’ordinamento precedente, ma addirittura con il nostro modo profondo di essere, di sentire, di comportarci; una rottura costituzionale, verrebbe da dire, con l’italianità. In un paese abituato (in parte costretto) da secoli alla furberia, all’illegalità, al clientelismo, alla ferrea mancanza di principi, all’arte di arrangiarsi e all’arruffianamento, al localismo particolare, alla cultura della famiglia e del clan, al disprezzo della legge e di ciò che è pubblico; in un paese, per converso, propenso al nazionalismo e alla magniloquenza, alla santificazione del successo comunque ottenuto, al dogmatismo del cattolicesimo e alla retorica di una grandezza non più posseduta: in un paese del genere la moralità profonda e solidale della Costituzione calava come un’autentica rivoluzione di costume, resa possibile da un momento eccezionale e irripetibile, ma impossibile a mantenersi al netto di questa eccitazione postbellica.» sostiene Elvio Fassone. Insomma, la Costituzione andrebbe attuata più che modificata.

Se la vogliamo cambiare significa che vogliamo mutare il modello di governo della società. Ecco, per Francesco Pallante, il «dilemma che grava sulle società pluraliste democratiche: la democrazia vuole che tutti possano decidere, secondo l’ideale dell’autogoverno; il pluralismo implica la compresenza di una molteplicità di posizioni, anche inconciliabili; le esigenze di governo richiedono che sia assunta una decisione. Come se ne esce?  Dal punto di vista teorico, si possono individuare due soluzioni opposte: la prima, ispirata all’idea che a decidere debba essere l’insieme più ampio possibile delle forze elettoralmente rilevanti (soluzione includente); la seconda, ispirata all’idea che a decidere debba essere la forza che nella competizione elettorale riesce a imporsi sulle altre (soluzione escludente).»
Sempre secondo Pallante: «La prima fase della storia costituzionale italiana è stata dominata dal modello includente, scritto in Costituzione. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ha iniziato a farsi strada l’idea che fosse preferibile il modello escludente. La stessa storia dei primi decenni della Repubblica è stata riletta attraverso le lenti del modello escludente, bollando come “consociativismo” quel dialogo politico tra i partiti che, pur tra mille difficoltà, aveva portato l’Italia a ridurre drasticamente le diseguaglianze sociali. Oggi – si dice – bisogna cambiare la Costituzione perché, per uscire dalla “palude”, c’è bisogno di istituzioni che decidano. Eppure, se solo si guardasse alla storia recente con minor pregiudizio, si scoprirebbe che, proprio nel momento di massimo fulgore del modello includente (tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta), sono state prese le sole decisioni in grado di riformare la società italiana nel senso indicato dalla prima parte della Costituzione: la scuola media unica e obbligatoria, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, i diritti dei lavoratori, il divorzio, il referendum, le regioni, la previdenza sociale, la progressività fiscale, il diritto di famiglia, l’urbanistica, l’aborto, ecc. Ultima è venuta l’istituzione del servizio sanitario nazionale, nel 1978.»

La stessa terminologia è il fulcro del pensiero di Acemoglu e Robinson che nel libro “Perché le nazioni falliscono”  dimostrano che è importante la “governance”: un paese si mantiene prospero finché l’attività di governo, ovvero quella di esprimere politiche, prendere decisioni, assumere responsabilità all’interno di processi democratici, funziona. I due distinguono tra istituzioni “estrattive” e “inclusive”: le prime servono a ristrette élites per accaparrarsi il reddito e le ricchezze prodotte nel Paese, al contrario le seconde consentono ad ampie fasce di popolazione di accedere alla ricchezza o al potere. Queste ultime funzionano solo se sono sorrette da una solida “poliarchia”, ovvero da una pluralità di poteri diffusi nella società: questo ci suggerisce che uno dei segreti dello sviluppo economico si nasconda in un effettivo pluralismo sociale.

4. Quali sono gli obiettivi? (Il governo non deve cadere)

La cosa che lascia più perplessi poi è non avere chiari gli obiettivi di questo pacchetto di riforme. Secondo Nadia Urbinati «sono due le esigenze che giustificano una riforma della legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e (rispondente), e renderlo più funzionale»: nessuna delle due esigenze è attuata dalle riforme in cantiere.

Se l’obiettivo è il risparmio è ridicolo: eliminare solo la parte elettiva di Senato e Province fa risparmiare un nonnulla (anzi in alcuni casi può far salire i costi se si distribuiscono le funzioni ad un livello in cui è un problema esercitarle). Per risparmiare basterebbe tagliare le indennità dei parlamentari e invece si confondono i costi della politica con i costi della democrazia ovvero le elezioni a suffragio universale che tanta fatica abbiamo speso per ottenere.

Se l’obiettivo è snellire il processo legislativo non ci siamo: il nostro è il parlamento maggiore produzione legislativa in Europa, mentre i DDL che fanno la “navetta” (ovvero fanno più di tre passaggi parlamentari) sono solo il 3% e in presenza di volontà politica il sistema è capace di accelerazioni fulminanti (poche settimane tra inizio discussione e pubblicazione in Gazzetta ufficiale).  Il problema casomai sarebbe quello di impostare leggi organiche e non continue leggine di modifica (sulla modifica) adottate con decretazione d’urgenza.

Se l’obiettivo è evitare che il Senato dia la fiducia basta modificare un articolo della Costituzione ma questo non è un problema se esiste una legge elettorale che garantisce maggioranze omologhe: è sempre stato così fino all’arrivo del porcellum con gli assurdi premi differenziati (nazionali alla camera e regionali al senato). Cambiamo il porcellum (in verità ci ha già pensato la Corte costituzionale) e siamo a posto.

Se l’obiettivo è diminuire il numero dei parlamentari allora lo si faccia in maniera equilibrata tra le due camere (400 e 200 potrebbero essere numeri adeguati) però attenzione perché se si riduce la rappresentatività con meno posti disponibili aumenteranno soldi e clientele necessarie per essere eletti. Oltretutto siamo pure tra i più virtuosi d’Europa con un eletto ogni 63mila cittadini e quindi questa necessità non è così impellente.

Se l’obiettivo è “superare” il bicameralismo paritario basta modificare un articolo della Costituzione per immaginare un percorso predefinito delle leggi in Parlamento con approvazione finale ad esempio della Camera. Ma il bicameralismo non è una palude ed è utile per la qualità della legislazione: senza «seconda lettura, che cosa accadrebbe in caso d’errore o di ripensamento? La legge da correggere sarebbe in vigore e occorrerebbe promuovere un nuovo procedimento legislativo per abrogarla o modificarla: sarebbe un’alternativa conveniente, dal punto di vista dell’efficienza? E dal punto di vista della certezza del diritto?» così si esprime Gustavo Zagrebelsky.

Se l’obiettivo è ridefinire meglio i compiti tra gli enti locali allora c’è un DDL che si trascina dalla scorsa legislatura in Parlamento e tanto valeva impegnarsi per approvare quello, studiando meglio i compiti da assegnare alle regioni (che hanno la tendenza a diventare dei piccoli imperi autoreferenziali), alle province indispensabili per la pianificazione e sviluppo dell’area vasta (un recente studio del Censis dimostra come siano gli ambiti ideali per sviluppare relazioni e progettualità in grado di portare sviluppo nelle comunità), ai comuni che sono la prima interfaccia del cittadino ma che devono crescere nella possibilità di incidere diventando più robusti attraverso meccanismi di fusione.

Se l’obiettivo è quello di “adeguarci all’Europa” toccherebbe studiare bene questi sistemi e non fingere che siano uguali al disegno governativo: il blog di Massimo Mucchetti aiuta a far chiarezza con una serie di confronti tra le camere alte dei maggiori paesi europei.

Se l’obiettivo è quello di “cambiare” allora «È un falso storico il mantra mediatico delle riforme bloccate da venti anni. Mai come nella Seconda Repubblica sono state apportate tante revisioni alla Carta e purtroppo si sono rivelate tutte fallimentari, come riconoscono oggi gli stessi proponenti. Dal Titolo V oggi criticato da tutti, allo jus sanguinis del voto all’estero mentre si nega il voto ai figli degli immigrati, al pareggio di bilancio di cui già si chiede la deroga, alla modifiche del 138 naufragate insieme alle Larghe Intese, agli assalti tremontiani contro gli articoli 41 e 42 sul valore sociale dell’impresa, fino alla riscrittura della seconda parte bocciata dai cittadini» nel 2006, scrive Walter Tocci

Insomma da ingegnere mi verrebbe da dire: prima si studia il problema, poi si identificano una serie di possibili strade, quindi si progetta una soluzione e infine la si realizza. L’idea che si debba partire dalla fine (e si debba pure fare in fretta) è inconcepibile. Ma forse il motivo vero è un altro…

5. Spirito costituente o dittatura della maggioranza

«La costituzione deve essere scritta quasi all’unanimità e si deve modificare quasi all’unanimità» sostiene Giovanni Flick, mentre secondo Gustavo Zagrebelsky: «le costituzioni sono quelle regole che ci diamo da sobri per averne bisogno quando saremo ubriachi».
Questo è l’aspetto più inquietante del dibattito in corso poiché non si tratta di modificare il regolamento di accensione dei lampioni in strada: la Costituzione si cambia solo quando ci sono enormi, verificati, dibattuti motivi per farlo, altrimenti diventa una legge come tutte le altre, modificabile a piacimento dalla maggioranza del momento. Si chiama anche “patto costituente” poiché determina le regole di convivenza sociale tra le componenti del paese e si deve avere quindi la serenità di delineare meccanismi e soluzioni attraverso il dialogo e con la maggiore condivisione possibile.

«In ogni costituzione, si sa, ci sono gli elementi portanti di una società, il suo Dna. Ma la Costituzione della Repubblica Italiana è un capolavoro di diritto, che ha saputo rappresentare ed è frutto di tutte le culture che storicamente si sono presentate nel nostro paese: quella cattolica, la socialista, la liberale, la comunista, la repubblicana eccetera.» secondo Felice Casson.
Infatti non si è mai visto impostare un progetto di riforma costituzionale con la spinta del governo, tradizionalmente per la sua delicatezza è lasciato al lavoro parlamentare: in Assemblea Costituente quando si passò all’esame degli articoli Pietro Calamandrei chiese ai ministri di lasciare l’aula, perché il governo non doveva interferire sulla Costituzione.

Al pari della riforma elettorale non è possibile che quella costituzionale venga concordata in riunioni a porte chiuse tra due partiti (le cui intese non vengono rese pubbliche), non è possibile che venga portata in parlamento con dei “paletti” immodificabili che introducono quelle rigidità su cui poi è inevitabile scontrarsi con le altre componenti politiche, non è possibile che il relatore sia costretto a presentate un testo base che non condivideva quasi nessuno, non è possibile che dei parlamentari vengano destituiti per motivi di opinione, non è possibile contingentare gli spazi di discussione parlamentare per portare a casa il punto in fretta (nemmeno durante il tentativo di revisione della Costituzione del centrodestra del 2006 si arrivò mai a porre una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale) perché poi per reazione le opposizioni si attrezzano con l’ostruzionismo che è una pratica parlamentare secolare e utilizzata da tutte le forze politiche.

«È in pericolo un aspetto più semplice e per così dire più intimo: lo stile del dibattito costituzionale. I critici della proposta sono stati definiti gufi, sabotatori, rosiconi e ribelli. Parole che non sarebbero mai state pronunciate dai costituenti, certo divisi dalla guerra fredda e dalle ideologie novecentesche ma sempre disponibili al colloquio delle idee.
Se Obama andasse in televisione ad annunciare la presentazione di un disegno di legge per cancellare il Senato e minacciasse di dimettersi in caso di mancata approvazione entro le prossime elezioni di medio termine chiamerebbero l’ambulanza o attiverebbero l’impeachment.» sostiene Walter Tocci.
Insomma, non è possibile richiamare sempre il principio della “maggioranza che decide” perché dalla dittatura della maggioranza di stampo ateniese sono passati secoli e si dovrebbe aver capito che il rispetto delle minoranze è fondamentale, soprattutto nelle fasi costituenti. La prova di forza muscolare potrà forse dare benefici sul breve periodo ma nel medio periodo lascerà danni rilevanti da entrambe le parti.

«La democrazia ha bisogno di partecipazione e governabilità, non di contrapporre l’una all’altra.» secondo il senatore Vannino Chiti.
Sintetizzando: «Vi fareste operare da un chirurgo in preda a un accesso d’ira? Beh, andare a toccare la nostra Costituzione è un’operazione chirurgica che incide sul funzionamento del corpo sociale, che va fatta se serve, ma con le garanzie di serenità minime per non avere un esito fatale.» secondo Felice Casson.

6. Le narrazione come lotta tra il bene e il male

E allora è necessaria un «narrazione politica semplificata al livello della eterna lotta fra bene e male: Bene e Male sono immediatamente popolari, ci si immedesima.  Allora il Bene è chi vuole il cambiamento, perché il passato è da dimenticare e di esso non si può conservare alcunché, nemmeno le forme consolidate delle istituzioni. Si tifa per il successo delle forze del Bene, ed è tutto un fiorir di metafore bellicose: le minoranze – maligne – devono essere stanate, passate per la spada – ma “ogni riferimento al Senato è casuale” – perché il Bene è inarrestabile e non puoi metterti di traverso. Il Bene non può che far bene, non può che far cose giuste, a che serve discuterle e criticarle? Se critichi, tu sei il Male. Vuoi riportare il paese nel caos, tu che ti permetti di commentare.» come scrive Davide Serafin
Ed ecco quindi tutto il fiorire dello zoo e del florilegio di epiteti per etichettare chi non vuole il cambiamento (ma quale cambiamento?): siamo partiti dai gufi per arrivare ai frenatori, ai rosiconi, ai “professoroni” e ultimamente pure agli sciacalli in un crescendo di drammatizzazione che è passato anche dall’orrendo hashtag #mentreloro, servito appunto ad imporre la contrapposizione tra i buoni che stanno cambiando il paese e i cattivi che si oppongono.
La cosa che più preoccupa però è che i media abbiano assecondato questa narrazione e non si siano (ancora) posti come cane da guardia del potere per valutarne con obiettività intenzioni, comportamenti e realizzazioni.

7. Proposte, proposte, proposte

La verità è invece opposta: da tutti i gufi e i professoroni si sono alzate una quantità impressionante di proposte di cambiamento che andavano però in direzione contraria: tendenzialmente si è tentato di immaginare un percorso di applicazione della Costituzione che potesse andare verso un recupero del rapporto tra gli elettori e gli eletti, tra i cittadini e la politica, verso maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche, verso una società più aperta. E allora vale la pena elencare queste proposte.

Gustavo Zagrebelski contrappone alla visione “amministrativistica” una “costituzionalistica” del Senato.  Se le nostre regioni non sono effettivamente autonome ma riproducono vizi e virtù della politica nazionale è inutile proporre “ragioni federative” e riprodurre le conferenze Stato-Regioni e Stato-Autonomie locali. Se è vero che le democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche, ha senso una seconda camera che operi con “ragioni conservative” di opportunità per il futuro.
Propone quindi un Senato con durata superiore a quella ordinaria della Camera, con la regola della non rieleggibilità e requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenute in regole d’incompatibilità e ineleggibilità, formato da due senatori per Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse.
Il Senato, nei casi in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti la cui tutela è propria responsabilità primaria, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Qui ci sarebbe la funzione di garanzia come “camera di ripensamento”.

Stefano Rodotà propone invece un Senato “dei controlli e delle garanzie”,  con un ruolo paritario per le leggi costituzionali e l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, del Consiglio superiore della magistratura e con potere d’inchiesta, di dare parere vincolante su determinate nomine, di valutare autorizzazioni a procedere e all’arresto, di risolvere questioni su conflitti d’interesse e eleggibilità dei parlamentari.
Tutte materie da sottrarre alla logica maggioritaria, come deve accadere per i diritti fondamentali. Prevede poi maggioranze qualificate quando si voglia intervenire su questi argomenti, assicurando al Senato di intervenire in modo paritario nel procedimento legislativo.
Questo Senato potrebbe avere l’elezione diretta dei suoi componenti con il metodo proporzionale, non solo per differenziarlo dalla Camera, ma perché le funzioni di garanzia non coincidono con la logica puramente maggioritaria.

Simile anche l’idea di Walter Tocci per cui l’introduzione di un’asimmetria che affidi solo alla Camera il rapporto fiduciario con il governo e assegni al Senato compiti di alta legislazione e controllo è un’occasione da non perdere. Proprio perché svincolati dalla fiducia i nuovi senatori sarebbero più severi nel controllare l’azione di governo, nel chiamare in audizione i dirigenti e i manager di aziende pubbliche, nell’analisi delle leggi già approvate per fare tesoro degli errori compiuti. Per il resto rimarrebbero in regime bicamerale le leggi cornice sui diritti fondamentali, sull’ordinamento istituzionale e sulle norme di diretta attuazione costituzionale.
ll “Senato delle Garanzie”, eletto con una legge non maggioritaria, aiuterebbe le diverse parti politiche a condividere i fondamentali della democrazia lasciando alla Camera il conflitto politico tra diverse opzioni di governo del Paese.
Ecco come cambiare verso: poche leggi all’anno, di alta qualità, delegificazioni per costringere i ministri ad amministrare invece che a legiferare, controlli parlamentari sui risultati. Il nuovo Senato insomma come Camera Alta delle leggi organiche, dei grandi Codici, dell’attuazione costituzionale, della raccolta dei frutti della conoscenza e della cultura del Paese.

Un po’ ingenua ma interessante in questo senso è la proposta della senatrice a vita Elena Cattaneo che pensa ad una scelta, di almeno una parte del Senato, con un meccanismo simile alle “primarie” a partire da una pregiudiziale o preselezione che privilegi i curricula, questo per ottenere una componente che apporti conoscenze e capacità utili per supportare “affidabilmente” i lavori di indagine e le mediazioni tra le diverse istanze politico-economiche

L’idea base di Giuseppe Civati, elaborata insieme ad Andrea Pertici, è una via di mezzo tra l’esigenza di mantenere un forte senato e costruire un ponte con le autonomie ed è sfociata in un DDL costituzionale (C. 2227) in cui si mantiene il legame fiduciario con la sola Camera dei deputati (ridotta a 460 deputati), a cui si affida la normale attività legislativa. Il Senato (di 200 membri + i senatori a vita) potrebbe svolgere il ruolo di una Camera di riflessione, con la possibilità di “richiamare” le proposte approvate dai deputati che manterrebbero comunque la parola definitiva, salve limitate ipotesi di leggi bicamerali (in considerazione del loro particolare rilievo); inoltre dovrebbe recuperare nuovo spazio nell’esercizio di alcune funzioni di controllo come quella d’inchiesta o di parere e assenso sulle nomine del Governo.
Un’ulteriore esigenza sarebbe quella di realizzare, attraverso il Parlamento, un migliore coordinamento dei livelli territoriali, in particolare a livello legislativo: in questo senso il Senato, consolidando il suo legame con i territori e le istituzioni regionali, potrebbe divenire una sede di coesione territoriale, partecipando, con potere decisionale, al procedimento legislativo nelle materie di legislazione concorrente (da ridurre e coordinare con il principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica) e in relazione alle leggi che incidono sulle autonomie territoriali.

La proposta di Vannino Chiti è più semplice ed è sfociata nel DDL costituzionale (S. 1420) firmato da oltre 20 senatori, che ha fatto da contraltare a quello del governo.
Nel testo si prevede la fine del bicameralismo paritario e che per la gran parte delle leggi l’ultima parola spetti alla Camera, tranne che per le riforme costituzionali, le leggi elettorali, ordinamenti dell’Ue, ratifica dei trattati internazionali, diritti civili e politici fondamentali, come ad esempio i temi eticamente sensibili. Sono previsti 106 senatori, tutti eletti direttamente dai cittadini (6 all’estero) contemporaneamente ai consigli regionali e con il proporzionale, eoltre al dimezzamento dei deputati da 630 a 315. Solo la Camera dà la fiducia ai governi. La differenza fondamentale riguarda l’elezione diretta dei senatori e le competenze più ampie del Senato, anche in tema di controlli, come le commissioni d’inchiesta.

Una proposta che potremmo definire riassuntiva è quella del Fatto Quotidiano che delinea 10 punti per restituire ai cittadini il diritto di scegliersi i parlamentari e coinvolgerli nella cosa pubblica; tutelare le minoranze e le opposizioni; allargare gli spazi di partecipazione diretta alla formazione delle leggi; limitare l’immunità parlamentare alle opinioni espresse e ai voti dati e abolendo i privilegi impunitari in materia di arresti, intercettazioni e perquisizioni; combattere i monopòli e i conflitti di interessi, specie nel mondo della televisione e della stampa; ampliare l’indipendenza e l’autonomia dei poteri di controllo, dalla magistratura all’informazione.

Le proposte quindi non sono mancate per poter pensare ad un dibattito, ad un dialogo costituente con tante forze ed espressioni dell’accademia, della politica, della società: se davvero si voleva andare oltre l’asse tra i maggiori partiti del Parlamento sarebbe stato possibile integrare alcuni dei tanti contributi interessanti che si sono sviluppati.
«Ho come l’impressione che si volesse seguire la strada che ho molto modestamente indicato – riduzione consistente del numero dei parlamentari (anche alla Camera), dimezzamento delle indennità, bicameralismo differenziato e migliore, potere di controllo e di garanzia del Senato, conservazione del suffragio universale – non solo voteremmo una riforma migliore, ma potremmo farlo con il consenso di tutto il Parlamento (e non solo di quello, ballerino, di Verdini e Berlusconi).» chiosa Giuseppe Civati.

8. L’anti-intellettualimo è indice della crisi

Uno degli aspetti più preoccupanti è l’anti-intellettualismo che si è manifestato con anatemi verso i “professoroni” e che secondo Elena Cattaneo «è un indicatore della crisi culturale e civile del paese.» Parte dagli anni ’90 quando viene meno l’interscambio virtuoso tra i grandi partiti (Dc, Psi e Pci) e i loro intellettuali di riferimento.
Il fenomeno nasce a destra e arriva subito al potere: prendere in giro gli intellettuali diventa di moda. Negli ultimi anni si è trasformato nel contrasto tra modernità e giovanilismo contro i vecchi barbogi che scrivono libri ed è tracimato anche a sinistra, oltre che nel M5S che ha addirittura atteggiamenti antiscientifici.
Se tutti insomma possono occuparsi di tutto, la casalinga di riforme costituzionali o il meccanico di medicina allora si scardina il rapporto del paese con la cultura e con la scienza, si squalificano la scuola e l’università, si relega la ricerca all’ultimo posto tra le priorità, si butta via un principio cardine delle società moderne che è quello di costruire a partire dalla conoscenza di chi è venuto prima e poi ci si ritrova con problemi che pensavamo di aver debellato secoli fa.

9. La crisi è della politica, non delle istituzioni

Da tutto ciò deriva che il tentativo a cui assistiamo in questi giorni, ma che abbiamo visto anche negli ultimi anni, è quello di nascondere i fallimenti della politica dietro a (finti) fallimenti delle istituzioni. «La crisi italiana non è istituzionale, è politica, perché dipende dalla mancanza di progetti chiari e distinti. La destra non ha realizzato il liberismo che aveva promesso e la sinistra non ha contrastato le diseguaglianze come le competeva. I due poli hanno chiesto più poteri di governo senza sapere cosa farne. Tutto ciò ha prodotto tante leggi, ma nessuna vera riforma. Il vuoto è riempito dalle illusioni mediatiche. La “cancellazione” del Senato è un incantesimo per far credere ai cittadini che ora le decisioni saranno più spedite e produrranno di milioni di posti di lavoro. Purtroppo la realtà è ben diversa. Questa legge non porterà alcun beneficio ai cittadini. Il ceto politico ha fatto credere che non poteva governare a causa della lentezza parlamentare, nascondendo le proprie incapacità dietro l’alibi delle riforme istituzionali. (…)
Da trent’anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l’orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali. Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l’agenda dei rottamati. Ripetono l’errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti. Si è costruita artificiosamente un’emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l’ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l’esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d’eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.» spiega bene Walter Tocci.
La politica insomma dovrebbe fare politica se ne è capace e, invece di voler modificare l’architettura istituzionale, pensare a modificare la società che ha tanto bisogno di cambiamento, nel senso dell’apertura verso i cittadini e non al contrario di chiusura in se stessa. In fondo l’occasione era a portata di mano con gli 8 punti del “governo del cambiamento” pronti all’uso: se non si vuole andare in quella direzione si dovrebbe almeno spiegare al paese perché.

10. “Siamo le parole che usiamo” (cit.)

L’ultimo aspetto preoccupante è quello dell’espressione delle riforme: la legge “Delirio” è una lunghissima prolusione di commi che si rimandano l’un con l’altro come in uno stile barocco fortemente complicato, ma la malattia ha contagiato anche la carta fondamentale: alcuni articoli della riforma sono un lungo rincorrersi di procedure molto complicate, spiegate con frasi lunghissime, lontane anni luce dallo stile conciso e definito della Costituzione del ’48 in cui sono state pesate le singole parole.
Secondo Walter Tocci: «L’elegante lingua italiana dei padri costituenti, con le sue parole semplici e profonde, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii ai commi, come un regolamento di condominio. Il linguaggio è la rivelazione dell’essere, diceva il filosofo. La Costituzione è come la lingua che consente a persone diverse di riconoscersi, di incontrarsi e di parlarsi. La Carta è il discorso pubblico tra i cittadini e la Repubblica, è il racconto del passato rivolto all’avvenire del Paese. Se la Costituzione è una lingua lo stile è tutto. Senza lo stile è possibile l’autocompiacimento del ceto politico, ma non il riconoscimento repubblicano.»
Gustavo Zagrebelsky arriva ad una scelta definitiva: «Non voglio più insegnare il diritto costituzionale. La Costituzione non è una materia come le altre, è qualcosa che implica l’adesione a certi valori. Se passerà il referendum sulla riforma Boschi non saprei neanche più che cosa insegnare. È un testo scritto malissimo, in certe parti contraddittorio e incomprensibile. La Costituzione del ’48 fu rivista da personaggi come Concetto Marchesi. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia» (ha davanti l’articolo 70 sulla funzione legislativa. Ne legge le sgrammaticature, e fa impressione).

Conclusione: qualcuno ci giudicherà

Le modifiche istituzionali plasmeranno insomma la forma di questo paese per le prossime generazioni e proprio per questo chiedono a tutti di prendere posizione. «La riforma costituzionale, interpella la coscienza di ciascun parlamentare (ma potremmo dire di ciascun cittadino, ndr). E lo pone davanti all’eterna domanda: siamo uomini o caporali? Essere uomini può anche portare alla sconfitta, ma che ci vogliamo fare? Neanche volendo, riusciremmo a entrare nel mondo dei caporali.» Massimo Mucchetti

1 comment
  1. condivido parola per parola!! says: 13 Aprile 201619:17
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